martedì 15 febbraio 2011

Monte Scuderi


Nell’antica cartografia siciliana Monte Scuderi è legato al toponimo “Mons Saturnius”. La leggenda narra infatti che nelle viscere del monte si nasconda la tomba del dio Saturno. Saturno che, nel mito, è legato anche all’origine del porto della città di Messina. Secondo il mito, Saturno, per succedere al padre Urano nel governo del mondo, lo uccide evirandolo con una falce. Gettato poi nel mare l’attrezzo parricida avrebbe così creato la zona falcata di San Raineri, porto originario di Messina. Tra i due luoghi esiste anche un collegamento visivo. Da Monte Scuderi è infatti possibile osservare la falce e viceversa. In realtà il toponimo Mons Saturnius, che nell’antichità veniva usato per indicare Monte Scuderi, può essere collegato al fatto che questo luogo costituiva il punto di riferimento del distretto minerario Alì-Fiumedinisi grazie alla straordinaria ricchezza dei filoni metalliferi. Un altro toponimo da cui può prendere origine il Monte Scuderi è quello di “Monte Spreviero” o “Monte Sparviero” per la quantità di questi rapaci che popolavano il monte ma anche per la forma della cima della montagna che ricorda proprio uno sparviero. Monte Scuderi si trova a Nord di Alì Superiore tra i comuni di Itala e Fiumedinisi; è alto circa 1300 metri e isolato dalla dorsale peloritana. Le pareti scoscese terminano sulla sommità con un vasto altopiano da cui lo sguardo può spaziare su tutta l’estrema Sicilia orientale fino alle isole Eolie. Le vie d’accesso per raggiungere l’altopiano sommitale sono essenzialmente due. La prima a N.O. convoglia i sentieri che provengono da Itala, Pezzolo e Altolia; l’altra, a S.E., detta “Porta del monte” è raggiungibile salendo da Alì e Fiumedinisi. La via più interessante per raggiungere il Monte è però quella che segue la strada ex militare lungo il crinale dei Peloritani. Il percorso comincia dal quadrivio detto delle “Quattro Strade” e dopo circa 18 km giunge a Piano Margi. Da qui, per raggiungere la cima del monte è possibile proseguire a piedi lungo un sentiero che si diparte dalla fonte detta di “Acqualima” e che dopo circa un chilometro si congiunge con la strada proveniente da Itala. Anche se presenta una certa difficoltà questo percorso è sicuramente il più suggestivo in quanto offre continuamente scorci e paesaggi di eccezionale bellezza. Geologicamente il monte è costituito da un blocco di calcare bianco che gli fa assumere l’aspetto dei monti carsici. La montagna è inoltre ricca di cunicoli sotterranei che si intrecciano sotto il pianoro sommitale. Furono sicuramente questi anfratti misteriosi a far fiorire numerose leggende. La più famosa e suggestiva è quella della Truvatura.

lunedì 14 febbraio 2011

I sentieri autoguidati dei Peloritani: il sentiero Brignoli


Il sentiero autoguidato Brignoli si estende per circa 2,6 km all’interno del Demanio Forestale di Rometta e prende il via nei pressi di Puntale Saitta. E’ raggiungibile seguendo l’ex sentiero militare, che prende il via poco prima di raggiungere il santuario di Dinnamare, in direzione Rometta. Si affaccia sul versante tirrenico e sullo sfondo è possibile osservare il golfo di Milazzo e le isole Eolie. Il sentiero si caratterizza per avere una rigogliosa vegetazione arbustiva di Corbezzoli ma è interessato anche da formazioni di macchia mediterranea, costituita da Erica e da Ginestra dei carbonai e di Spagna, con presenza di piante di Leccio e Roverella. Nelle vicinanze dell’area attrezzata, sul lato destro del sentiero, da una miriade di sorgenti d’acqua nasce il torrente S. Pietro. Fino a poco tempo fa il legname di Leccio e Roverella presente in queste zone veniva usato dall’uomo per fabbricare il carbone. 
Per ricordare e far conoscere questa tradizione ai visitatori, nell’area soprastante la zona attrezzata, è stata ricostruita un’antica carbonaia che illustra e spiega i materiali e le tecniche per la fabbricazione del carbone. Il carbone si otteneva da una struttura chiamata appunto “carbonaia”, composta da tronchetti affastellati in 2-3 strati con al centro un camino per l’accensione e il tiraggio. La legna veniva poi ricoperta con uno strato di terra lasciando soltanto qualche punto di areazione. Durante il periodo di combustione, che poteva durare tra gli otto e i dieci giorni, i carbonai dovevano continuamente sorvegliare la carbonaia e regolare la temperatura chiudendo o aprendo le prese d’aria. Dopo lo spegnimento e il raffreddamento (12-24 ore) veniva estratto il carbone. Durante il processo di combustione i carbonai trovavano riparo all’interno della “zimma”, una costruzione realizzata attraverso l’utilizzo di materiali poveri ricavati in loco (pali,felci, erica, zolle di terra, cenere della carbonaia). 
La zimma poteva ospitare da una a quattro persone e si componeva di una struttura portante formata da tre pali della lunghezza di 2,5-3 metri e da una base perimetrale formata da un muretto di pietre. La copertura veniva realizzata usando rami di ginestra, felci, cenere e terra. A volte, in un angolo veniva creato un piccolo camino per riscaldare l’ambiente interno. L’entrata era riparata da una parete fissa di legno e da una mobile che, all’occorrenza, poteva essere chiusa dall’interno.

venerdì 11 febbraio 2011

I sentieri autoguidati dei Peloritani: il sentiero "Badiazza"


Il sentiero Badiazza è situato all’interno del bacino montano di S. Leone che ricade nel comune di Messina e costituisce un polmone verde di grande valore paesaggistico, biologico e sociale. Il sentiero prende avvio in prossimità del quadrivio delle “Quattru Strati” sul Colle S. Rizzo (480 m s.l.m.), accanto al chiosco di Don Minico, dove è possibile gustare il tipico pane cosiddetto "alla disgraziata". Il percorso è lungo circa 830 m e  si distende in discesa attraverso singolari tornanti lastricati in pietra e caratteristici muretti a secco. Lungo il percorso sono collocati un’area di sosta e 15 cartelli che illustrano e informano il visitatore sugli elementi naturali, botanici, geografici, storici e sulle curiosità del luogo. Sono presenti esemplari di Pino Domestico, Leccio, Cipresso, Robinia, Noce ed Eucalipto. Il percorso si conclude nelle vicinanze della splendida ed antica chiesa di S. Maria della Valle o “Badiazza” (325 m s.l.m.) che amplifica il valore culturale del sentiero. 

L’origine della chiesa è strettamente legata alle vicende di un antico monastero di monache benedettine, a cui la chiesa era originariamente annessa. La data di fondazione dell’antico monastero di S. Maria della Valle risale probabilmente intorno al 1080, circa venti anni dopo la conquista di Messina da parte dei Normanni. Intorno al 1167 la chiesa cambiò denominazione, da S. Maria della Valle in S. Maria della Scala. Il cambiamento di nome fu determinato da un avvenimento che la tradizione ci tramanda come episodio miracoloso. Si narra, infatti, che, durante il regno di Federico II di Svevia in Sicilia, nel porto di Messina attraccò una nave proveniente dall’oriente, a bordo della quale era nascosta un’icona raffigurante la Vergine Maria con una scala. Il quadro sarebbe stato rubato da alcuni marinai messinesi in una città orientale. Una volta scaricata la merce e salpate le ancore la nave rimase però immobile, nonostante il vento fosse favorevole, con grande stupore di tutti gli astanti. Per agevolarsi il favore divino i marinai decisero allora di rivelare all’Arcivescovo di Messina l’esistenza del quadro nascosto. Non appena l’icona venne portata a terra la nave miracolosamente prese il largo. Venne allora deciso di mettere il quadro su un carro lasciando i buoi liberi di andare in qualsiasi direzione. Il carro prese la via dei Colli S. Rizzo, fermandosi in prossimità del monastero benedettino. L’icona sacra venne allora condotta all’interno della chiesa che, in seguito all’evento miracoloso, venne ampliata e prese il nome di S. Maria della Scala. La leggenda del miracolo risulta però priva di fondamento storico in quanto non si trovano notizie di questo avvenimento nei documenti del tempo in cui esso sarebbe dovuto avvenire (1168-1220), bensì in epoca posteriore, probabilmente dopo la peste del 1347.

Mappa per raggiungere il punto di partenza del sentiero.

giovedì 10 febbraio 2011

I sentieri autoguidati dei Peloritani: il sentiero "Ziriò"

Il sentiero Ziriò prende il via da Portella Croce Cumia sulla strada per Dinnamare (a circa 6,5 km dal quadrivio cosiddetto delle "Quattro strade") e si estende per circa 2,5 km attraversando diversi ambienti forestali. Il percorso è circolare  ed offre al visitatore numerosi punti di interpretazione del paesaggio boschivo. Ogni punto di osservazione è segnalato dalla presenza di cartelli che, oltre a riportare il nome della specie, la classificazione e le caratteristiche che ne permettono il riconoscimento, forniscono dettagliate descrizioni e curiosità.
Il manto arboreo è dominato dal pino marittimo e dal castagno ma sono presenti anche pino domestico, pino d’ Aleppo, pino nero e robinia. Il sottobosco è invece caratterizzato da piante di sambuco, rovi e felci. Le aree ricoperte da macchia mediterranea sono rappresentate da erica (Erica arborea), ginestra dei carbonai (Spartium junceum), e giovani esemplari di leccio (Quercus ilex), roverella (Quercus pubescens) e frassino maggiore (Fraxinus excelsior). Circa a metà percorso è presente un punto di sosta panoramico che si affaccia sulla costa tirrenica e dal quale si può godere di un panorama che si estende da Monte Scuderi, passando per l’Etna, Rocca Novara di Sicilia, il Golfo di Milazzo fino ad arrivare alle isole Eolie.
Durante la stagione primaverile ed in autunno lungo il sentiero è possibile ammirare la fioritura del ciclamino che, coprendo uniformemente la superficie del suolo, crea un tappeto rosato. Proseguendo il cammino è possibile osservare un vecchio edificio che durante l’ultimo conflitto mondiale venne adibito a polveriera, garitte di sorveglianza e cunicoli usati come rifugi.


In mezzo al bosco sono inoltre presenti le fosse della neve, un tempo utilizzate per accumulare e stagionare la neve. In queste zone l’usanza di scavare nei luoghi elevati delle profonde buche quadrate o circolari con le pareti rivestite di pietre a secco per conservare la neve risale infatti a tempi remoti. Nota già nel periodo Normanno-svevo, dal XIII secolo in poi questa tradizione divenne una vera e propria attività economica regolamentata da specifiche disposizioni amministrative. Da questi elenchi si apprende che la neve più pregiata, e quindi più costosa, era quella proveniente da Monte Scuderi. Durante l’inverno la neve veniva accumulata e pressata dentro le buche fino a riempirle. Poi si procedeva ad una prima copertura con rami di felce e infine il tutto veniva coperto con uno spesso strato di terra. Nella stagione estiva i «nivaroli» aprivano con cautela le fosse e tagliavano dei blocchi di ghiaccio che, avvolti in sacchi di juta, venivano trasportati sui muli in città.
Con questo stratagemma gli abitanti locali potevano gustare, anche in piena estate, le granite, i gelati e la squisita pasticceria fredda siciliana, nella cui produzione i maestri siciliani eccellevano, ed eccellono tuttora.

- Mappa per raggiungere il punto di partenza del sentiero.

mercoledì 9 febbraio 2011

Sentieri autoguidati dei Peloritani: Il sentiero "Abc"


Tra i boschi dei Monti Peloritani esistono numerosi sentieri attrezzati e autoguidati, realizzati dal Demanio Forestale, che consentono di godere appieno di questi luoghi, di conoscerli e di comprenderne così l’alto valore naturalistico, storico, sociale e culturale. Lungo i sentieri sono infatti dislocate diverse tabelle che aiutano il visitatore a familiarizzare e conoscere il territorio dal punto di vista forestale, ecologico, paesaggistico, geografico, geologico e anche storico-sociale.
Oggi descriverò brevemente il sentiero cosiddetto dell'"ABC", fornendone anche una collocazione geografica attraverso la mappa, raggiungibile dal link a fondo articolo.
Il sentiero del'"ABC" è collocato a circa 1 km dal quadrivio delle Quattro Strade (Portella Rizzo) e si snoda per circa 1000 mt. Il percorso, di facile percorrenza e con una ridotta escursione altimetrica, è adatto a tutti. Prende il via dal Forte Puntal Ferraro e, attraversando diversi ambienti forestali, arriva alla strada per Camaro, nelle vicinanze dell’ex colonia “Principe di Piemonte” e dell’area attrezzata sottostante la chiesa della Madonnuzza. Il sentiero è stato ideato per avvicinare il visitatore, in particolare i bambini, alle tematiche del bosco e al suo rispetto attraverso la conoscenza. I cartelli illustrativi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, sono rappresentativi delle specie animali o vegetali presenti in loco.
Di fronte all’ingresso del sentiero Abc è collocata l’area daini, realizzata dal Demanio Forestale, che ospita una comunità di circa 70 daini ed è situata a ridosso del Forte Ferraro, uno dei forti realizzati in epoca umbertina.

A questo indirizzo potete trovare la mappa che illustra come raggiungere il punto di partenza del sentiero.

martedì 8 febbraio 2011

I Monti Peloritani


I monti Peloritani costituiscono il proseguimento ideale della catena degli Appennini che, dall’altro lato dello Stretto di Messina, termina con le montagne dell’Aspromonte. A Differenza dell’Aspromonte i Peloritani raggiungono altitudini che non superano i 1400 metri, con creste sottili e taglienti. La catena si estende dal promontorio di Capo Peloro fino alle vallate dell'Alcantara. La vetta più alta è Montagna Grande (1374 m), seguita dalla Rocca di Novara, Pizzo di Vernà (1287 m), Monte poverello (1279 m), Monte Cavallo (1216 m), Pizzo della Croce (1214 m) e Antennamare (1124 m). 
I Peloritani presentano caratteristiche litologiche e morfologiche che li differenziano dalle altre catene montuose della Sicilia e che ne hanno condizionato fortemente sia il paesaggio sia la vita. Il tormento orografico che quest’area ha subito, l’accentuata acclività dei versanti, le pietraie e gli effetti nefasti del fuoco danno un’impressione generale di degrado e desolazione. Addentrandosi in questi luoghi si scopre invece un paesaggio naturalistico selvaggio e di estrema bellezza, un mondo sconosciuto dominato dal silenzio, all’interno del quale si possono riscoprire i moti più profondi dell’anima, a contatto con una natura che suscita sensazioni di estrema tranquillità e pace interiore. Grazie alla loro posizione geografica e alle numerose bellezze naturali, posseggono tutte le qualità  per essere meta di turismo naturalistico, ma soprattutto rappresentano un’occasione per vivere un turismo responsabile ed educativo. Offrono infatti la possibilità di poter vivere un’esperienza di salutare relax, lontano dal caos urbano, a contatto diretto con la natura e a meno di un’ora di cammino dai vari centri cittadini dislocati lungo la costa. La presenza di numerose aree attrezzate e la vicinanza alla città di Messina rendono infatti agevole la fruizione turistica di questi luoghi. Ogni area attrezzata è inoltre rappresentativa delle diverse realtà territoriali e delle diverse tipologie forestali della provincia di Messina.

Nei prossimi articoli descriveremo alcuni dei tanti sentieri naturalistici che attraversano i Peloritani e che possono essere percorsi a piedi, in mountain-bike o a cavallo. 

lunedì 7 febbraio 2011

Orione: il cacciatore stellare

Secondo la mitologia greca, Orione era un cacciatore gigantesco ed un formidabile architetto. Sulla sua nascita esistono diverse versioni. La più diffusa lo vorrebbe figlio del dio Nettuno e di Euriale, la figlia di Minosse. Un'altra versione sostiene invece che Orione fosse figlio di un contadino, un certo Ireo. Questi, dopo aver offerto ospitalità a Zeus, chiese in cambio di poter aver un figlio, considerato il fatto che la sua tarda età glielo impediva. Il padre degli dei disse allora ad Ireo di sotterrare la pelle di una giovenca sacrificata. Da questa, dopo un po' di mesi, nacque un bambino che venne chiamato Orione. Così come per la nascita, anche sulla vita e la morte di Orione esistono diverse versioni. Secondo alcuni Artemide uccise Orione per salvare le Pleiadi, sue accompagnatrici, inseguite da Orione che le voleva violentare. E sarebbe per questo che ogni notte il gruppo delle Pleiadi viene incalzato dalla costellazione di Orione. Secondo altri, Orione tentò di violentare la stessa Artemide che, per difendersi, gli scagliò contro uno scorpione che lo uccise colpendolo sul tallone. Per rendergli omaggio la dea trasformò lo scorpione in una costellazione che ancora oggi insegue eternamente quella di Orione. Così, mentre lo Scorpione sorge a Est, Orione fugge sotto l'orizzonte a Ovest.
Secondo la tradizione riferita da Diodoro Siculo (lib. IV, 85) il mito di Orione era molto diffuso nella zona dello Stretto di Messina. Si dice che il gigantesco eroe venne chiamato da Zancle, re della città che da lui prendeva il nome (l'attuale Messina), per costruirne il porto falcato. Inoltre in questa zona Orione contribuì alla formazione del promontorio Peloro, sul quale innalzò un tempio dedicato al padre, il dio del mare, Nettuno. Per queste ragioni, in seguito, i messinesi vollero fissare nel marmo il ricordo delle loro origini semidivine, dedicando ad Orione la splendida fontana, realizzata dal Montorsoli nel XVI secolo e collocata oggi accanto alla cattedrale della città.

venerdì 4 febbraio 2011

Colapesce: l'uomo-pesce

Un’altra leggenda che si collega allo Stretto di Messina e all’eterno desiderio di conoscenza dell’uomo, al suo bisogno di andare oltre ciò che è noto per scoprire l’ignoto è quella di Colapesce, il prodigioso pescatore messinese, abilissimo nuotatore, in grado di vivere a suo agio in mare come sulla terra. L’origine di questa storia risale, probabilmente, all’epoca di Federico II di Svevia e ne esistono diverse versioni. Di seguito vi riporto quella scritta da Italo Calvino nelle sue Fiabe Italiane:
"Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
- Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
- Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re (Federico II); e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
- Cola! – gli disse. – C’è il Re di Messina che ti vuole parlare!
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re. Il Re,al vederlo, gli fece buon viso.
Cola Pesce, – gli disse, – tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede. Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia. Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
- E allora Messina su cos’è fabbricata? – chiese il Re. –Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò   a galla e disse al Re:
- Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.

O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!

Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce. Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce.
Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
- Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò su disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua.
Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
- Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
- Che c’è, Cola? – chiese il Re.-
C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire mi son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola: - No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il Re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo,e la buttò in mare.
- Va' a prenderla, Cola!
- Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno! - Una corona che non ce n’è altra al mondo - disse il Re.– Cola, devi andarla a prendere! - Se voi così volete, Maestà, – disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare. Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.
Cola Pesce s’aspetta ancora che torni."
La leggenda vuole che Colapesce, giunto in fondo al mare, vide una delle tre colonne che sostengono il Capo Peloro quasi spezzata e decise allora di sostituirsi ad essa. Si dice che Cola sia ancora lì per tenere a galla la città di Messina e la parte nord-orientale della Sicilia.

giovedì 3 febbraio 2011

Riserva naturale - Laguna di Capo Peloro




La Riserva Naturale di Capo Peloro, situata nelle località di Ganzirri e Capo Faro, a circa 10 km da Messina, è costituita dai due laghi:  il lago di Ganzirri o pantano grande, e il lago Faro o pantano piccolo. Il lago di Ganzirri è infatti il più grande e vi si arriva dopo aver percorso la via Consolare Pompea, strada fatta tracciare dai romani nel I sec. a.C. Il «Pantano grande»  è, come il lago di Faro, di origine marina dovuta ad insabbiamento e ha una forma allungata, simile ad un otto. Nel punto in cui si restringe, sul lato a monte, è presente una sorgente di acqua minerale che genera una fitta risalita di bollicine di gas. Si dice che  i pescatori e i molluschi-cultori riescano, dall’intensità dell’emissione di bolle, a capire quando il tempo sta volgendo al brutto, affermando che «il lago fa i palloni». Quando, infatti, il tempo cambia e sta per arrivare la pioggia, con la diminuzione della pressione atmosferica, l’emissione di bolle aumenta. Sembra che le “previsioni” dei pescatori siano quasi sempre corrette.
L’ambiente del lago è quasi completamente chiuso in quanto è collegato al mare, solo periodicamente, attraverso due canali e al lago di Faro attraverso il canale cosiddetto di «Margi».
Il lago di Faro è invece posizionato presso Capo Peloro e viene anche chiamato «Pantano piccolo». E’ infatti di dimensioni più ridotte rispetto al lago di Ganzirri ma presenta una maggiore profondità, circa 30 metri ai livelli massimi. Il pantano piccolo è in comunicazione con il mare attraverso due canali. Il primo sfocia nelle acque dello Stretto presso la chiesa di Torre Faro; l’altro sbocca invece sul versante tirrenico in contrada «Torre Bianca», ma rimane spesso occluso a causa delle mareggiate che creano alti cumuli di sabbia.
La tradizione narra che un tempo, nella posizione in cui attualmente si trova il lago, sorgesse una città chiamata Risa che venne poi sommersa dalle acque come la leggendaria Atlantide. Si dice che quando le acque sono particolarmente limpide si riescono a distinguere sul fondo i ruderi dell’antica città. Tra questi si potrebbe osservare un campanile le cui campane, prodigiosamente, fanno periodicamente sentire i loro rintocchi.
I due laghi della Riserva naturale di Capo Peloro sono uniti tra loro dal canale di Margi scavato intorno al 1810. Fino a tale periodo, nei pressi, in contrada Margi, esisteva un terzo laghetto, dove, secondo la leggenda, gli antichi costruirono un tempio precristiano dedicato al dio Nettuno. Si dice che le colonne in granito che fino al 1908 sostenevano le navate del Duomo di Messina provenissero da questo tempio pagano. Il lago Margi venne poi bonificato durante il periodo borbonico perché l’ambiente risultava troppo malsano.
La riserva si trova, inoltre, lungo la rotta di numerosi uccelli migratori che sostano qui per rifocillarsi durante il loro lungo viaggio verso la costa africana. Vi si possono osservare gru, aironi, oche e anatre selvagge ma anche falchi pescatori, gabbiani e sterne.
Qui potete trovare il link alla mappa della zona, con le indicazioni per raggiungere Capo Peloro, partendo da Messina, insieme ad una piccola galleria fotografica.

mercoledì 2 febbraio 2011

Mostruosamente Stretto

Lo stretto di Messina è un luogo oltre confine, che “origina infinito”. Ed è lì dove il confine si fa meno netto che si insinua il mito, destabilizzando lo sguardo dell’uomo e spingendolo oltre la realtà, nel dominio dell’immaginazione.


Il mito che più caratterizza lo Stretto è quello di Scilla e Cariddi, metafora delle derive, dei vortici, degli approdi che ora mandano a fondo il viaggiatore, ora lo riportano a galla, avvinghiandolo sempre nelle spire dell’incertezza.
La prima descrizione dei terribili mostri del mito di Scilla e Cariddi la troviamo nell’Odissea di Omero: Scilla è un mostro atroce e spaventevole, che abbaia e ringhia orribilmente, localizzato su uno scoglio di una rupe alta cento metri nella punta calabra. E’ munito di dodici piedi e di sei colli smisurati, portanti ciascuno una testa mostruosa guarnita da un triplice giro di denti acuminati. Questo mostro antropofago  abita un’oscura caverna da cui sporge la testa cercando avidamente la preda. Fra le grinfie di Scilla muoiono sei compagni di Ulisse. Cariddi è l’altro orribile mostro, posto sotto il Promontorio Peloro, che tre volte inghiotte le acque del mare e tre volte le rigetta creando immensi vortici d'acqua.
Cariddi è la mostruosità del mare, Scilla i rischi della terra, la maledizione di una principessa che si riverbera su quanti osano oltrepassare una via senza via”.
La leggenda narra infatti che Scilla fosse una ninfa stupenda che si aggirava per le spiagge dello Stretto. Di lei si innamorarò Glauco, un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla però rifiutò la corte di Glauco e così questi chiese aiuto a Circe, senza sapere che anch’ella a sua volta era innamorata di lui. In seguito al rifiuto di Glauco, la maga decise di vendicarsi di Scilla preparando una pozione che la trasformò in un orrendo mostro. Dopo la trasformazione, Scilla si nascose in un antro presso la costa calabra dello Stretto di Messina scaraventando le navi sulla costa durante le tempeste e divorandone i marinai. Chi riusciva a sfuggire alle sue grinfie veniva preso dal mostro Cariddi che inghiottiva navi e marinai per poi vomitarli con orrendi muggiti.
Secondo la leggenda greca, Cariddi, figlia di Gea e Nettuno, aveva un'indole estremamente vorace e fagocitava tutto ciò che le capitava a tiro. Così, dopo aver rubato ed ingurgitato i buoi di Ercole, per punizione venne fulminata da Giove e trasformata nel pericoloso gorgo dello Stretto di Messina, che si aprì come effetto del fulmine scagliato dal padre degli dei. 

"...E' mostruosità assoluta, impassibile e spietata. Quella posta ai due lati dello Stretto, nel passaggio obbligato, nel confine tra la vita e la morte, la natura e la cultura, in quel canale ribollente, in quell'utero tremendo di nascita o di annientamento: Scilla e Cariddi...Una metafora diventa quel braccio di mare, quel fiume salmastro, una metafora dell'esistenza: lo stretto obbligato, il tormentato passaggio in cui l'uomo può perdersi, perdere la ragione, imbestiandosi, o la vita contro lo scoglio o dentro il vortice di una natura matrigna, feroce; o salvarsi, uscire dall'orrido caos, dopo il passaggio cruciale, e approdare...nell'Itaca della realtà e della storia, della ragione e degli affetti.
Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell'isola dai tre angoli: epifania crudele, periglioso sbandare nella procella del mare, nell'infernale natura; salvezza possibile dopo tanto travaglio, approdo a un'amara saggezza, a una disillusa intelligenza." 
V. Consolo - "L'olivo e l'olivastro"

Qui e qui due link per approfondire l'argomento.

martedì 1 febbraio 2011

Capo Peloro: tra terra e mare


Il nostro viaggio in Sicilia ha inizio dalla  zona di Capo Peloro o Punta Faro, estremo lembo nord-orientale dell'isola e luogo seducente, sempre immerso in una luce straordinaria, dove terra e acqua si confondono, e che racchiude in sé l’essenza del viaggiare. Capo Peloro si distende sul mare, nel punto in cui si incontrano e si scontrano da un lato lo Ionio e dall'altro il Tirreno. I vari miti (Colapesce, la Fata Morgana, Scilla e Cariddi) rendono Capo Peloro, con lo Stretto di Messina, il simbolo del bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che è noto, di immergersi nell’ignoto, di dare sfogo all’irrequietezza che alimenta lo spirito del viaggiatore, affrontando i pericoli e le insidie che, per molto tempo, hanno reso incerta la sorte dei viaggiatori che transitavano per questi luoghi.
L’origine del toponimo Peloro rinvia immediatamente al mito. La tradizione sostiene infatti che Peloro derivi dal nome di un gigante che abitava questa zona. Da qui al toponimo Peloro venne assegnato il significato di immane, gigantesco, mostruoso. Alcuni storici antichi affermano invece che il nome Peloro, abbia avuto origine dal nome del nocchiero di Annibale, che venne ucciso dal generale cartaginese per sospetto di tradimento quando lo stesso Annibale, giunto in prossimità dello Stretto di Messina, pensò ad una trappola, avendo l'impressione di penetrare in un golfo senza uscita. Quando però più tardi si accorse del fatale errore fece erigere una statua in onore della sua vittima e gli intitolò il promontorio. 
La tradizione viene però smentita, in quanto il promontorio Peloro aveva questo nome già prima della venuta di Annibale in Italia. Così lo chiamano anche Aristotele e Tucidide, scrittori vissuti in epoca anteriore al comandante cartaginese. Sembra infatti che Peloro non fosse nient'altro che il gigante Orione, altro personaggio mitologico legato al territorio messinese e di cui si parlerà più approfonditamente nei prossimi post.