tagghiatu tuttu, poi stisu a lu chianu,
poi mazziatu e fattu finu finu,
senza chi ni ristassi nu filu sanu,
poi fattu matapolla e musulinu,
poi fazzuletti pri li vostri mani:
d'accussì sulu vi staria vicinu
e no ca v'è guardari di luntanu!
Nino Martoglio, Centona, "Tidda"
Le parole d'amore del poeta e commediografo siciliano Nino Martoglio riassumono con poetica efficacia le "sofferenze" che il lino doveva affrontare nelle varie fasi della sua lavorazione.
In Sicilia il lino veniva seminato nel tardo autunno. Quando fioriva, in primavera, i campi si tingevano d'azzurro "come laghi bellissimi dove si specchiava il cielo più terso". Dopo aver raggiunto la maturazione, gli steli venivano strappati dalla terra, riuniti in fasci e fatti essiccare al sole. Seguiva poi la fase della sgranellatura, nella quale gli steli venivano separati dai semi battendoli su una lastra di marmo (na bbalata) con una mazza di legno ( u mazzuocculu). Privati dei semi gli steli venivano posti a macerare nei nachi (dall'arabo naq'a(h), culla), fosse ricavate lungo il greto delle fiumare, in cui l'acqua era stagnante o fatta scorrere a lento regime. La macerazione, che durava tra gli otto e i dieci giorni, serviva a favorire la fermentazione e la decomposizione delle sostanze peptiche e la liberazione delle fibre. I fasci di lino venivano poi sottoposti alla gramolatura, alla pettinatura e alla scotolatura. Alla fine di tutti questi "sbattimenti" si ricavava un fascio di fibre lunghe e sottili che veniva annodato a formare una matassa dalla quale il lino veniva filato per la tessitura dalle donne più anziane ed esperte.
Tratto da "Alla ricerca delle radici, Enzo Romano, Armando Siciliano Ed., Messina 1999
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